La campagna di Zara: un esempio fallimentare del "purché se ne parli" - avvisatore.it
La nuova campagna pubblicitaria di Zara per la collezione Atelier ha suscitato un acceso dibattito sul web. Le foto mostrano statue di corpi umani avvolti nel cellofan, che molti interpretano come un richiamo alle vittime della guerra in Palestina. Le immagini, scattate dal fotografo di moda Tim Walker, presentano la modella Kristen McMenamy circondata da corpi avvolti nei sacchi trasparenti, in un laboratorio bianco ottico. L’intento provocatorio del brand spagnolo è evidente, giocando con il filo del rasoio della provocazione e attingendo a un immaginario sensibile al pubblico.
La massima di Andy Warhol, “non esiste cattiva pubblicità”, trova espressione nel mondo dei social media, dove l’importante è che se ne parli. Se Esselunga aveva dimostrato questo concetto con lo spot della pesca, che aveva scatenato un acceso dibattito ideologico sui social, lo stesso non si può dire della campagna pubblicitaria di Zara. Molti influencer hanno reagito alle immagini, ma il silenzio non viene mai apprezzato. L’intenzione del brand spagnolo era chiara: creare un dibattito acceso e dominare la conversazione utilizzando l’indignazione sociale come strumento sicuro.
Le foto della campagna pubblicitaria di Zara, realizzate da Tim Walker, mostrano la modella Kristen McMenamy circondata da statue di corpi umani avvolti nel cellofan, in un laboratorio bianco ottico. Queste immagini sono state interpretate come un chiaro richiamo alla guerra tra Israele e Palestina. Non c’è dubbio che l’intenzione del brand fosse quella di alludere alle immagini di guerra che affollano i telegiornali, sfruttando l’indignazione sociale come strumento per dominare la conversazione. Tuttavia, l’allusione così diretta è stata giudicata di cattivo gusto da molti, arrivando al limite della provocazione.
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