Campi Flegrei, l’INGV scopre uno strato fragile sotto la caldera: può favorire terremoti e sollevamento del suolo

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Ultimo aggiornamento il 13 Maggio 2025 by Emiliano Belmonte

Lo strato si trova tra i 2,7 e i 4 km di profondità. L’INGV lo ha individuato con analisi tomografiche e campioni estratti da un pozzo geotermico. La pressione dei fluidi magmatici potrebbe generare nuove crisi sismiche.

Sotto la caldera dei Campi Flegrei, tra i 2,7 e i 4 chilometri di profondità, si trova uno strato di crosta più fragile del previsto. Lo rivela un nuovo studio condotto dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e pubblicato sulla rivista scientifica AGU Advances. La zona porosa, evidenziata da tomografie sismiche tridimensionali e dall’analisi di campioni rocciosi, potrebbe spiegare la dinamica del bradisismo e la sismicità ricorrente dell’area.

Fluidi intrappolati sotto la caldera: cosa succede tra i 3 e i 4 chilometri

Il dato principale emerso dallo studio è la presenza di un volume geologico a bassa resistenza meccanica, situato tra rocce carbonatiche profonde e tufi vulcanici superficiali. Questo strato agisce da contenitore per fluidi magmatici, che, aumentando di volume e pressione, deformano il suolo e innescano terremoti localizzati. I ricercatori lo hanno individuato analizzando la velocità di propagazione delle onde sismiche e sezionando campioni prelevati da un pozzo geotermico situato nel centro della caldera, a circa 3 km di profondità.

Secondo Lucia Pappalardo, ricercatrice dell’INGV e coautrice dello studio, il meccanismo è chiaro: “I fluidi aumentano progressivamente di volume e pressione. Questo processo genera deformazioni e attiva la sismicità.” I dati confermano che i terremoti di magnitudo superiore a 3 registrati tra il 2000 e il 2025 si sono concentrati sopra questo strato debole.

Magma fermo in profondità e dicchi solidificati: la struttura nascosta sotto i Campi Flegrei

L’indagine fa parte del progetto LOVE CF, coordinato dall’INGV in collaborazione con le università di Grenoble Alpes e Bologna. Gli studiosi hanno evidenziato che accumuli magmatici passati, chiamati dicchi, si sono infiltrati nello strato fragile durante vecchie fasi eruttive, poi si sono raffreddati e solidificati senza mai arrivare in superficie. Questi corpi, oggi visibili nei dati tomografici, contribuiscono a rendere l’area meno resistente, influenzando la distribuzione dello stress e la possibilità di nuove risalite magmatiche.

Durante l’eruzione del 1538, uno di questi dicchi ha ripreso a salire dopo una lunga fase di inattività, uscendo infine in superficie. I ricercatori ritengono che questo tipo di dinamica possa ripetersi. L’area evidenziata nello studio è segnalata nei modelli con una colorazione sfumata giallo-arancio, che indica la densità delle intrusioni magmatiche. I pallini viola marcano invece gli ipocentri dei terremoti più recenti.

“Tassello cruciale per il monitoraggio”: cosa cambia per la sorveglianza

La scoperta non modifica le valutazioni immediate sul rischio, ma offre una chiave nuova per leggere i segnali della caldera. A spiegarlo è Mauro Antonio Di Vito, direttore dell’Osservatorio Vesuviano – INGV: “Questa ricerca non incide sulle previsioni a breve termine, ma è fondamentale per migliorare la nostra capacità di monitoraggio. Solo una conoscenza dettagliata del sistema vulcanico può permetterci di anticipare segnali critici.”

Il confronto con altri studi in corso conferma l’attenzione crescente sull’area. Pochi giorni prima della pubblicazione dell’INGV, un’équipe dell’Università di Stanford aveva attribuito i fenomeni sismici a infiltrazioni di acqua meteorica nel serbatoio geotermico a 2 km di profondità. Lo strato identificato ora dall’INGV si colloca più in basso e ha una natura diversa: non solo raccoglie fluidi, ma condiziona la risposta meccanica dell’intero sistema flegreo.

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